Qualcosa è cambiato

Cari lettori di Piumedoca, vi sarete accorti che le chiacchiere languivano, negli ultimi tempi.

Si dice che quando qualcosa finisce, qualcosa comincia. Senza dimenticare il passato, che resta esattamente dov’è,  Piumedoca sarà d’ora in poi un luogo di chiacchiere, ancora, ma direttamente con i lettori.

Chi resta di Antonia e Virginia, si chiederà qualcuno? Nessuna delle due, ovviamente, ma una voce che le ricorda entrambe. Chiamatemi Anna.

Nel darvi appuntamento prestissimo al prossimo post, vi invito tutti a commentare e scrivere liberamente. Buon viaggio alle nuove Piumedoca!

Parole parole parole…

Cara Virginia, oggi c’è il sole e non ho voglia di disquisire su cose importanti o di parlare di libri (di cui non mi stancherei mai ma forse si stancherebbero i nostri lettori).

Allora ho pensato a una vignetta dei Peanuts ed è venuta una parola.

Parola che è un parolone. Compromesso storico (ci vuole una certa età per ricordarselo, e ricordarsi quante discussioni ha generato). La vita è tutta un compromesso: non sono d’accordo, ma una certa attitudine al compromesso garantisce la sopravvivenza. Compromettente: brutta parola, nessuno vorrebbe fare qualcosa di compromettente o ritrovarsi in una situazione compromettente, che non vuole più dire aver fatto un compromesso ma essere compromessi…

E poi c’è la magnifica interpretazione di Lucy, trovata sulla pagina Facebook Le frasi più belle di Snoopy, che ringrazio per essere una fonte inesauribile di piacere e ispirazione, https://www.facebook.com/pages/le-frasi-piu-belle-di-snoopy/117084304975335.

A te cosa evoca compromesso, Virginia?

Yours slightly silly Antonia

Cara Antonia, a me la parola evoca più la promessa che non il danno che il termine sembra arrecare alla reputazione, sotto forma di aggettivo. Però a me piace negoziare e trovare alternative: qualcuno lo chiamava problem solving. Che di problemi se ne parano sempre tanti e forse andare al mare con gli sci non è poi una cattiva idea. Non si sa mai!

V.

CoglioneNo, pensieri sulla campagna per difendere il lavoro dei creativi

Cara Virginia, faccio qualche nota a margine della divertente e dolente campagna CoglioneNo sul lavoro creativo.

Premettiamo che sono di parte.

E che non c’è molto da dire: la campagna racconta una realtà che chiunque lavori in azienda, oltre a chiunque lavori come creativo, conosce e sperimenta tutti i giorni. E già era uscito tempo fa un pezzo un po’ troppo lungo ma molto divertente sul lavoro non pagato, sul blog di Dario De Marco, Per tutto il resto c’è Facebook.

Tra le conseguenze della crisi economica, il lavoro non pagato è tra le peggiori. Ma sul lavoro creativo, la crisi economica ha solo aggiunto il tocco finale. Le avvisaglie c’erano, eccome. Il riconoscimento del valore del lavoro creativo era un problema, e una lotta quotidiana, anche 20, 30 anni fa. Ci dicevamo sempre, senti ma se fossimo degli ingegneri che presentano il progetto di un ponte, mica ce lo direbbero perché questo pilone non lo metti più a destra e secondo me devi fare prima il centro del ponte e poi i lati e così via. C’era sempre un sottotesto “Lo potevo fare anch’io” come si dice per l’arte contemporanea.

Anche la tecnologia ha dato il suo contributo: il valore della visibilità (ma al di sopra di quale soglia la visibilità è un valore?), gli strumenti che rendono facile fare una foto e un video, il linguaggio che con i social media è diventato quotidiano, facile, scanzonato. Come se fare i creativi fosse diventato più facile. Come se fare i creativi dipendesse dalla capacità di “smanettare” (hai mai sentito una parola più brutta?) con smartphone e social media, e di conseguenza anche dall’età anagrafica.

Che bella frittata!  Pronta per essere mangiata da azienducole e aziendette che hanno trovato nella crisi la buona scusa per non rispettare più niente e nessuno (se stesse comprese, ahimé).

Perchè diciamoci la verità,  ma che razza di progetto è mai quello per cui non c’è un budget? L’altro giorno su FB qualcuno ha postato una “offerta di lavoro”, anche sgrammaticata, per un esperto del lusso e della moda, creativo,  proattivo, disposta a lanciarsi anima e corpo in un progetto per il momento senza un soldo, ma forse domani chissà… Ma nemmeno quando uno fa i buoni propositi per l’anno nuovo li fa così approssimativi e a muzzo! (Persino quando uno si fa un progettino per sè, tipo mi apro un blog, un budget ce l’ha: magari è solo il suo tempo, di cui però conosce il valore perchè è un tempo sottratto a qualcosa d’altro, e a cui dà un valore perché lo mette in quel progetto.)

Sbaglio Virginia?

Angry, well, not that much, Antonia

Cara Antonia, l’argomento è scottante e temo di essere d’accordo con te; la domanda che mi nasce spontanea è circa il senso del lavoro e quello che ciascuno di noi può mettere di proprio, come competenza e come esperienza. Hai già detto molto tu, aspetto un altro post per proporre le mie riflessioni. Certo che questa mancanza di rispetto, piuttosto diffusa, in nome di non so bene quale profitto, mi urta parecchio.

V.

Ma senti questa!

Cara Virginia, senti questa, trovata su Twitter e confermata su The Telegraph:

thetelegraph

Gli scienziati scoprono il segreto per scrivere un best seller

I softwaristi hanno sviluppato un algoritmo con il quale predire, con una percentuale di accuratezza dell’84%, se un libro sarà un successo commerciale – e il segreto è evitare i cliché ed un uso eccessivo dei verbi

Ora a parte che gli scienziati avrebbero, a mio modesto parere, ben altro di cui occuparsi, e potrebbero lasciare la questione dei best seller ai signori del marketing, secondo il bel detto Ofelé fa il to’ mesté (a proposito, che cosa fa un ofelé?). Ma che il segreto del successo di un libro sia evitare i cliché e un uso eccessivo dei verbi… ma che vuol dire? Io di best seller pieni di cliché nella mia vita ne ho visti parecchi, ed è anzi la ragione per cui in genere diffido dei best seller! Quando ai verbi, certo se ne usi troppo la scrittura risulta pesante… ma vale anche per troppi aggettivi, o troppi pronomi, o troppi nomi propri… Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa Alessandro Baricco, di questa grande scoperta!

E tu Virginia che ne dici?

Scandalized Antonia

Ohioi!! cara Antonia, va bene la passione degli statunitensi per i numeri e per la virtù, questo va detto, di non lasciare mai nulla al caso, tranne l’imponderabile che quello si, per definizione,  non si può misurare. Ma questa dell’algoritmo mi sembra uno strano strumento di marketing, allineato con le nuove tendenze del lavoro per cui le forze son poche e le richieste sono tante. E quindi perchè non affidare ad un algoritmo quanto un tempo era la somma dell’esperienza e della sensibilità del lettore di mestiere? Insomma un pò di mistero ci vuole, e riuscire a stabilire all’84% che un libro avrà successo, il mistero lo fa secco!!! nella mia modesta opinione….

Virginia

Sante parole, dottor Jurgenson!

Cara Virginia, sai che mi piace leggere e parlare di internet, ogni tanto, e che mi sembra anche logico dato che ci siamo dentro fino al collo. Una delle mie muse su questo tema è Barbara Sgarzi, che scrive sul suo blog su Vanity Fair con molta sensatezza e semplicità. A parte il suo articolo di ieri, Sei riflessioni sui social media nel 2014, mi era piaciuta l’ intervista a Nathan Jurgenson, sulle previsioni sui social network per il 2014.

immagine 2014 ok

E’ stata una boccata d’aria fresca. Sentirgli dire che “non siamo obbligati a condividere tutto con tutti”, che “i contenuti social non hanno bisogno di esistere per sempre” e che “non siamo obbligati a creare ambienti social che facciano della nostra vita un’esibizione e non dovremmo ragionare solo in termini di “like” ricevuti” mi ha confortato. Dunque non sono solo io che penso che condividere è bello ma è bello anche tenere per sè. Non sono solo io che penso che un post non è bello solo perché riceve tanti like o brutto perché non li riceve. Non sono solo io che credo che la sindrome FOMO (Fear Of Missing Out) alla fine sia tanto irrilevante quanto il detox da social immaginato per le vacanze. E’ un po’ come con il cibo, Virginia: è inutile esagerare e poi stare a digiuno, se si mangia ogni giorno il giusto si sta bene e ci si gusta tutto quello che arriva. Come dire, un po’ di buon senso non farebbe male neanche ai social!

Ma certo il conforto che quello che si pensa sia condiviso da un sociologo come Nathan Jurgenson (e non per menar vanto, ma anche Bauman è un sociologo, e anche Bourdieu – purtroppo scomparso prima dell’arrivo dei social – e anche io) fa piacere. E forse ci dice qualcosa sulla condivisione: che ha senso solo quando quello che condividiamo ha davvero valore per noi.

L’intervista di Barbara Sgarzi, che ringrazio, si trova qui: http://bit.ly/J7EZij

Curious Antonia

Il bosco d’inverno

Cara Virginia, un breve post per raccontarti la gita di ieri. Gita breve, post breve. Molta acqua. Neve parzialmente sciolta dalla pioggia. Pioggia sottile e silenziosa, costante, come essere dentro una nuvola invece che sotto.

bosco d'inverno

Silenzio, come sempre nei boschi d’inverno, quando anche gli animali se ne stanno rifugiati e ben nascosti. Gli uccellini ad esempio, saranno tutti migrati al caldo? Le lepri hanno lasciato delle tracce, probabilmente quando questi fissati che devono camminare con ogni tempo si sono tolti dalle scatole esc0no a sgranchirsi le zampe, a cercare qualcosa da mangiare. Se non fosse così inospitale, sarebbe bello fermarsi in un bosco d’inverno a cercare dove si nasconde quella vita che poi, tra due o tre mesi, riemergerà cantando, sgorgando, correndo. E anche questo ti racconta, il bosco d’inverno: che le nuvole ci sono e possono anche decidere di fermarsi per giorni, che le stagioni non sono un’opinione (neppure le mezze stagioni), che quelle sporadiche foglie prima secche e ora zuppe d’acqua ancora attaccate al ramo fanno solo da eco alle tristezze personali. Loro sono lì e per la natura, madre natura, hanno lo stesso valore. E anche per noi, guardando bene, hanno la stessa bellezza.

Grazie a Sentierando per l’accompagnamento, per il pranzo di Natale in buona compagnia, e per le befanine che appenderemo al camino!

Antonia in a wintery mood

Io sono il capitano della mia anima

Cara Virginia, non abbiamo a suo tempo dato l’addio a Nelson Mandela, che pure è tra le figure indimenticabili della nostra vita e del nostro tempo.

Una bellissima foto di Nelson Mandela

Una bellissima foto di Nelson Mandela

Lo faccio ora, con un ritardo che a lui certamente non importerà, con la parte conclusiva di una bella poesia, che mi ha mandato un’amica: viene da Invictus, film che non ho visto ma che, come proposito per il nuovo anno, vedrò.

Non importa quanto stretto sia il passaggio
Quanto piena di castighi la vita
Io sono il padrone del mio destino
Io sono il capitano della mia anima.

Direi che questo è un buon modo per augurare buone feste ai nostri lettori (magari scriviamo ancora nei prossimi giorni, ma just in case gli auguri li facciamo subito).

Antonia at the end of the year

Quando la conversazione era sacra

Cara Virginia, Isolaria Pacifico che abbiamo conosciuto in Valle Camonica, ha proposto una splendida e arguta “pausa bellezza” su Twitter: la sacra conversazione di Giovanni Bellini, che vedi qui sotto.

sacra conversazione di Bellini

C’è poco da aggiungere. Un dipinto meraviglioso, che ci racconta come nel 1490 la conversazione fosse seria come può essere oggi, e pacata come oggi raramente è. Chissà se si sarebbero mai immaginati che un giorno avremmo fatto conversazione davanti ad un computer passando per un’applicazione dal buffo nome Twitter?

Amazed Antonia

Raglio d’asino non sale al cielo ovvero pensieri internettiani

Cara Virginia, stamattina mentre andavo al lavoro e pensavo dei pensieri sparsi, pensavo anche a quanto la rete rappresenta la realtà.

Realtà, internet

Realtà, internet

Banale, vero? Ma neanche tanto. Perché in realtà le aspettative della gente rispetto alle rete sono tutt’altro. Sono che cambi il mondo, o almeno che lo migliori. Che realizzi la democrazia che in più di 2.000 anni non siamo riusciti a realizzare, tanto per dirne una. E come si stupiscono che questo non avvenga, così si scandalizzano per le brutte cose che la gente mette in rete, la cattiveria con cui commenta le notizie, le battute volgari, le parolacce, le stupidaggini, le polemiche fine a se stesse. Come se queste cose nella vita reale la gente non le facesse.

Ma li incontriamo tutti i giorni i maligni, gli invidiosi, gli stupidi, tutti con mamme sempre incinte e niente cerotti sulla bocca. E allora qualcuno propone i filtri.

E io, nonostante sia orripilata ogni volta che vedo una bruttura e nonostante sia rattristata ogni volta che vedo un’idiozia, sono MOLTO contraria ai filtri. Primo perchè mi ricordano il principio della censura. Chi filtra chi? Chi decide che cosa è giusto che stia in rete e che cosa no? E poi perché appunto, la realtà è quella che è. Mia mamma aveva una bella espressione, anche se un po’ cattolica: raglio d’asino non sale al cielo. E credo che valga anche per internet!

Very democratic Antonia

Lavorare stanca, ma pure non lavorare

Nuove specializzazioni

Nuove specializzazioni

Cara Antonia, oggi ti porto una riflessione leggera leggera, come un macigno.
Parlavo in questi giorni, con persone diverse,  della necessità di reinventarsi costantemente un’identità professionale. Prima era la rivoluzione digitale a proiettare in avanti chi aveva resistenze culturali o curricolari. Poi è arrivata la crisi economica a costringere  molte persone, donne e uomini a vacanze forzate dal lavoro  (quando ce lo si può permettere) o a riflessioni altrettanto forzate sulla vecchia massima: si chiude una porta, si apre un portone. Ma difficile capire per chi sia l’opportunità.  I dati certi della disoccupazione in Italia, e allargherei all’Europa, sono troppo pericolosi a mio avviso per essere divulgati e non son deputata a fornirne: quindi poco rigorosamente mi baso sull’esperienza che ognuno di noi fa della prossimità circa chi ha perso il lavoro o sta per perderlo. E i numeri crescono, come aumenta il numero di esercizi commerciali che anche in una grande città come Milano chiudono. Certo l’aria è pesante e quindi? Siamo alla decadenza dell’Impero e dell’Occidente insieme?  O forse il lavoro, come  realizzazione di un quid economico ha perso ogni significato, avendo difficilmente e solo per pochi risposto a motivazioni più profonde di realizzazione di sè. Dunque bisogna ritornare al baratto?

Trovo molto strano che tutto ciò accada in un momento tecnologicamente avanzato e dotato di miriadi di strumenti per esprimersi come non mai: mettersi a nudo oggi è l’azione più facile ed economica; basta la tastiera e la connessione ad Internet. Ma che cosa questo produca di monetizzabile, fatti salvi gli addetti ai lavori è difficile da individuare. Non ho una risposta, ma una lunga domanda composta di micro dubbi. E tu che cosa ne pensi?

V.

Cara Virginia, tocchi un tasto dolente e da cui escono domande e nessuna risposta.

Neppure io conosco i dati della disoccupazione, ma certo è facile immaginare che il moltiplicatore dell’economia, quello per cui i 10 euro che spendo passando di mano in mano ne creano 15 e poi 30 e via in modo più o meno esponenziale, funzioni anche nell’altro senso: meno soldi circolano meno ne circoleranno. E questo è il nodo che Keynes aveva affrontato teoricamente e Roosvelt praticamente nel 1929, con il famoso “fategli scavare delle buche ma fateli lavorare e pagateli per quello”. Ci sarà qualcuno che ha il coraggio di farlo?

Voglio però dire che l’immagine che hai messo in apertura mi irrita. Mi irrita il demagogismo che ci sta dietro, lo slogan che semplifica, fa effetto, fa anche la rima ma non spiega nulla e non dice nulla. Dietro a molti di questi slogan ci sta una pretesa: che siccome ho studiato ho diritto a un lavoro, che ho diritto a stare meglio dei miei genitori, che ho diritto ad avere una vita sicura, tranquilla, con un reddito che cresce costantemente. Io non credo che si abbia diritto a queste cose. Si ha diritto ad essere pagati per il lavoro che si fa. Si ha diritto ad avere l’opportunità di studiare. Si ha diritto ad essere curati quando si è malati, indipendentemente dal reddito. Si ha diritto al salario di disoccupazione se si è perso il lavoro. Dopo di che ci si prende in carico la propria vita. Ogni mattina. Tenendo conto che il mondo fuori da noi non è al nostro servizio, ma è il contesto in cui ci muoviamo. Se in mare scoppia una tempesta, hai voglia di arrabbiarti perchè non la volevi! Forse è meglio che ti rimbocchi le maniche, tiri giù le vele e ti appresti ad affrontarla.

Mi fai venire in mente un’altra cosa: il libro di Michele Serra, Gli sdraiati, che è in cima alle classifiche e ha scavalcato anche Fabio Volo. Io non l’ho ancora letto, ma so che parla di adolescenti e il titolo è illuminante, nella sua tristezza. Se finalmente ci alzassimo tutti in piedi? Per fare qualcosa, dopo aver protestato?

Politically incorrect Antonia

Cara A.,

L’immagine infatti voleva essere un pò provocatoria: a mio avviso il problema attuale è non il lavoro per, ma il lavoro. Punto.

V.